lunedì 12 settembre 2022

QUATTRO CHIACCHERE CON... FABIO MAZZARI 

-intervista di Valentina Bottini-

1.       Si racconti  a  360°

«Sono un ultrasettantenne che, a questo punto della vita, non può fare che bilanci, dare uno sguardo indietro verso il cammino fatto e guardare alle tante battaglie combattute (alcune vinte, molte perse), a quel poco o tanto che ho imparato e, qualche volta, chissà, magari anche insegnato. Insomma, come diceva Neruda alla polizia cilena che lo interrogava “confesso che ho vissuto”.

Per la verità quest’ultimo periodo della mia vita è stato segnato da un dolore enorme e da un vuoto incolmabile: la morte di mia moglie Silvia, dopo 55 anni di matrimonio. L’altra metà della mia vita se n’è andata di colpo e io ho dovuto lottare contro il silenzio gelido e assente che mi si era aperto dentro. Ma ora sto meglio e posso raccontarvi un po’ di me.

Ho cominciato a fare teatro nel fatidico anno 1968, con il Teatro Universitario di Bologna. Non pensavo però di fare l’attore, mi interessava il teatro come modalità espressiva, culturale (in quegli anni non c’erano tutti i linguaggi mediatici di oggi); volevo fare il regista teatrale. Così mi proposi come aiuto-regista e lavorai per un po’ in quel ruolo. Poi, una sera, alla vigilia di un debutto, un attore si infortunò e dovetti sostituirlo io. Così ho cominciato a fare l’attore, anche perché me la cavavo abbastanza bene, e ho continuato. Ho avuto così l’occasione di lavorare con alcuni fra i più importanti registi di quegli anni: Strehler, Cobelli, Maiello, Puggelli, Cecchi, Shammah, Savary. Alcuni anni della mia vita li ho trascorsi anche nella Svizzera Italiana, dove sono stato protagonista in teatro con il Teatro della Svizzera Italiana, con il gruppo “ La Maschera “ e in molti sceneggiati radiofonici e televisivi.

Poi a Milano, dove ho vissuto per trent’anni, è arrivato il doppiaggio, dopo anni di predominio romano, e così sono entrato in una cooperativa e ho doppiato numerosi telefilm, sit-comedy e anche cartoni animati. Poi, grazie alla generosità di mia moglie, che mi aveva ceduto un magazzino da lei affittato per il suo lavoro di fashion-bijoux, ho creato lo spazio teatrale ZAZIE. Infine è arrivato VIVERE e il personaggio di Alfio Gherardi, molto amato dal pubblico, che mi ha dato una certa visibilità e anche una certa popolarità. In seguito ho ripreso a condurre stages di teatro e ho interpretato alcuni film di produzioni indipendenti.

Confesso che il mio sogno giovanile era quello di diventare calciatore. Avevo iniziato una brillante (almeno sembrava...) carriera nei ragazzini del BOLOGNA, mia città natale. Poi la vita, come spesso accade, è andata in un’altra direzione e ho interrotto, ma mi è rimasta la passione per il calcio che ho praticato, con gli amici attori, fino a qualche anno fa, quando mi hanno operato al femore e ho dovuto abbandonare qualsiasi attività sportiva.

La mia vita è trascorsa tutta accanto a mia moglie e a mio figlio Michelangelo, almeno fino a quando lui è rimasto con noi. Io, a differenza di molti colleghi, sono sempre stato un casalingo, che non vedeva l’ora, dopo il set o dopo le tournèe, di rientrare fra le quattro mura domestiche, per cenare con mia moglie e raccontarle le mie storie di lavoro».

2.       Cos’è “Spazio Zazie”?

«Lo spazio “ Zazie “ era un’ ex-officina, in piena Chinatown a Milano, che doveva servire a mia moglie come laboratorio per la sua attività. Invece io le chiesi se me lo cedeva per farne uno spazio teatrale e lei, generosa come sempre, me lo diede. Era una sala di 90 metri con una colonna portante centrale, che complicava molto le cose, ma che la rendeva anche affascinante. All’inizio avevo studiato una formula innovativa, che però era troppo in anticipo, anche per una città come Milano. Il teatro aperitivo, dalle 19 alle 20, 30. Per la prima mezz’ora si esibiva mio figlio Michelangelo con il suo trio jazz e poi seguiva lo spettacolo. In questo modo lo spettatore aveva davanti a sé una serata intera, per andare al cinema, a cena, magari ancora a teatro. Ma era troppo presto, l’esperimento fallì e tornammo agli orari normali. E così allo Zazie (il nome l’aveva dato mia moglie, dal romanzo di Queneau) sono passate molte compagnie, soprattutto di giovani che non avevano un teatro loro e io vi ho fatto tutte le mie regie e i miei spettacoli. In genere il pubblico veniva più volentieri in quella piccola sala che non in un vero teatro. Dicevano che lì provavano vere e condivise emozioni».

3.       Regista, recitazione, attore, doppiatore, cinema, radio, teatro, televisione… posso definirla un  artista poliedrico?

«Grazie. E’ una definizione impegnativa, che spero di meritare. E’ vero peraltro che ho effettivamente ricoperto tutti questi ruoli, dall’attore al doppiatore, dalla radio alla tv, dal teatro al cinema. Per la verità quello a cui sono più affezionato e in cui mi riconosco maggiormente è quello di regista teatrale. Un po’ perché è un ritorno ai miei progetti di gioventù, quando ho cominciato a fare teatro e poi perché, da attore, conosco quelle stesse tensioni, quelle insicurezze, quelle  fragilità che provano i miei colleghi e sono in grado di aiutarli a superarle, e a crescere sul proprio personaggio facendo in modo che riescano ad esprimere il meglio di sé stessi. E poi affrontare, analizzare, interpretare, allestire un testo, magari un classico, è anche un modo per me di riprendere gli studi interrotti a suo tempo, per fare l’attore». 

3.       Chi è Fabio oggi?

«Fabio oggi è un anziano signore che, in una lunga carrellata all’indietro, sta rivedendo tutti i fotogrammi della sua vita. Un film abbastanza interessante, un po’ action, un po’ sentimentale, un mix di dramma e commedia, come avviene spesso, un po’ in bianco e nero e un po’ a colori. L’unico vero dolore è il fatto di non poterlo vederlo insieme all’altra protagonista, mia moglie Silvia. Per il resto, grazie al cielo, ho ancora l’energia sufficiente per sostenere un paio di monologhi teatrali e portarli in giro. E per prepararmi ad interpretare alcuni ruoli importanti per l’associazione di cui faccio parte “Cinema sociale99“ (creata e diretta da Luca Guardabascio) di Eboli».

5.       Qual è il segreto per “sopravvivere” nella “jungla” della  televisione?

«Mah, non so se sono realmente in grado di rispondere a questa domanda. Posso dire che, durante la lunga esperienza di VIVERE, il segreto è stato quello di essere semplicemente me stesso: corretto, professionale, gentile e, a volte, anche divertente con i colleghi e i tecnici. Per il resto non saprei, dal momento che, come vedete, in tv non appaio più da un pezzo. Un po’ per scelta e un po’ perché, in Italia, dopo una certa età (l’ha detto Franco Nero) è molto difficile lavorare. Comunque risponderei come prima: essere me stesso. Ho visto infatti che chi sgomita o peggio, non sempre viene premiato. Spesso viene adoperato e poi gettato via, magari accompagnato da una cattiva, spregevole opinione. Da parte dei colleghi e dei produttori».

6.       Tutti la ricordano nel ruolo di Alfio Gherardi nella soap “Vivere”, ma lei ha recitato anche in altri ruoli sia per la televisione sia per il teatro. Mi racconti.  Inoltre lei è anche un importante doppiatore… me ne parli.

«Per la verità, per la maggior parte della mia carriera, io sono stato soprattutto un attore teatrale e i ricordi sarebbero quindi molti. Forse troppi. Posso citare alcuni dei ruoli che ho interpretato. A cominciare da una versione “giovane“ del Cyrano, a ventidue anni, a il servo Fessenio de “La Calandria”, commedia del ‘500. Poi “Nella giungla delle città“ di Brecht, dove cantavo una canzone di Jannacci. Poi, nella Svizzera Italiana, ho interpretato Trofìmov ne “Il giardino dei ciliegi“, personaggio che ho amato molto. In una versione molto affascinante de “Il processo“ di Kafka, io interpretavo, sotto diverse forme, tutti i personaggi persecutori del protagonista K. Ebbe molto successo, e io in particolare. Poi, nel mio ZAZIE a Milano, ho allestito e interpretato di nuovo Cèchov e qui vorrei ricordare il dottor Astrov di “Zio Vania“. Infine a Eboli, mia nuova patria, ho interpretato “Carlo Levi a sud di Eboli“ con la regia di Luca Guardabascio e “Una scimmia all’Accademia“, tratto da Kafka, scritto e diretto da Luca Guardabascio.

Per quanto riguarda la TV, ho esordito sostituendo Gianni Cavina in una versione ante litteram di “Antonio Sarti brigadiere“. Però qui Cavina non doveva interpretare ancora il poliziotto, ma un ladro, e quello io feci. Piacqui al regista Passalacqua, che mi volle come protagonista in un sceneggiato sulla seconda guerra mondiale, dove interpretavo un pilota tedesco. Mi chiesero di restare a Roma, ma io avevo la mia famiglia e la mia vita a Milano e tornai al Nord. E qui, ancora per la Tv della Svizzera Italiana, interpretai alcuni sceneggiati, fra cui vorrei ricordare “Il processo di Stabio“ accanto a Lino Troisi e “La roeda la gira“, dov’ero l’avvocato difensore di Paolo Ferrari, con cui stringemmo amicizia. Paolo era una persona splendida.

Il doppiaggio. L’ho fatto per anni e, per la riedizione di vecchi film (che dopo un certo numero di anni, perdevano i diritti e potevano essere ridoppiati) ho avuto la fortuna di dare la voce a grandi attori come Jack Nicholson giovane, Denis Hopper, Harvey Keitel, Klaus Kinsky e Burt Reynolds. Devo precisare che si trattava per lo più di tv movie, perchè le voci “cinematografiche“ ufficiali di questi attori erano a Roma. Ho interpretato anche alcuni cartoni animati, fra cui val la pena di ricordarne almeno uno. Data la mia origine bolognese, mi chiesero di ridoppiare, in un’occasione, il celebre puma Svicolone, che prima di fuggire esclamava immancabilmente “svicolo tutto a mancina..” ».

 7.       Esiste l’amicizia nel mondo di cinema/televisione?

«A meno che non si abbia a che fare con qualche divo capriccioso e viziato, figura ormai sempre più rara (ma non troppo), direi di sì. Il lavoro che fanno gli attori, il loro condividere emozioni identiche, tensioni, sforzi, attese, intensità, debolezze e punti di forza, li porta quasi naturalmente a una sorta di vicinanza e d’intimità che può anche essere molto forte. E poi anche, se per caso, ci fosse un contrasto, nel momento in cui due attori recitano una scena insieme, fra loro si accende una comunicazione profonda, muta, fraterna che cancella tutto. Io non ho mai avuto inimicizie con i colleghi, anzi,  a me è successo sempre così».

 8.       Mi racconti un episodio della sua carriera lavorativa.

«A parte tutti gli innumerevoli aneddoti legati al teatro, soprattutto scherzi (che da sempre si fanno in scena). Tipo cambiare le battute, in modo che il/la partner sia costretto/a a improvvisare o non entrare in scena, quando è stato annunciato il tuo ingresso ( “ Ecco il nostro sire, prepariamoci ad accoglierlo..Mah..che succede? Forse è stato trattenuto da un imprevisto..Eppure mi è parso di vederlo..etc. ). Oppure in tv, quando, credendo che io fossi ricco come il personaggio che interpretavo,


Alfio Gherardi, mi arrivavano lettere con richieste di denaro, anche da parte di carcerati. O proposte di matrimonio da parte di affettuose zitelle.

Ebbene ricorderò un episodio legato al doppiaggio. Vivevo a Milano e un giorno fui convocato da una cooperativa di doppiatori per un provino. Nella saletta davanti alla sala di incisione, c’era già in attesa un ragazzo venuto da Genova, anche lui per il provino. Eravamo tutti e due lì per la stessa ragione ed, essendo entrambi piuttosto agitati, cominciammo a scherzare, come succede spesso, soprattutto fra gli attori, per stemperare la tensione (all’epoca andava di moda, anzi era quasi obbligatorio, imitare Totò ). E quel ragazzo, simpaticissimo, era formidabile, non solo in quella imitazione , ma in un sacco di altre invenzioni, voci, battute, etc. Tanto che io mi dissi: è chiaro che sceglieranno lui, ed è anche giusto. Toccò a me per primo entrare e fare il provino. All’uscita non me la sentii di assistere  al provino del nuovo amico, gli dissi in bocca al lupo, lo abbracciai e me ne andai, sicuro che avrebbero scelto lui. A sorpresa scelsero invece me e io mi dissi com’è strano e a volte ingiusto questo mestiere. Passarono gli anni e io continuai il mio lavoro di doppiatore. Una sera, di colpo, una sorpresa; in televisione c’era quel ragazzo di Genova ed ebbi, ancora una volta, la conferma della sua bravura e versatilità. Era Maurizio Crozza».

 9.       Quali progetti ha per il futuro?

«Sto preparando un nuovo monologo teatrale, tratto da Kafka, scritto e diretto da Luca Guardabascio, così come il precedente “Una scimmia all’Accademia“. I due monologhi, presentati insieme, formeranno una specie di dittico kafkiano.

Parteciperò poi a Salerno al cortometraggio “Per averci creduto” di Luca Guardabascio, che ha creato a Eboli l’associazione culturale Cinema Sociale99, della quale faccio parte e che tratta storie e argomenti di forte impatto sociale e civile. Poi, sempre per la stessa associazione, sarò protagonista con Kevin Capece di un film tratto da Cèchov, ambientato in un teatro di notte, e anche questo girato a Salerno».

 10.   Tre aggettivi con cui gli altri la definiscono?

«Beh, non saprei. Forse bisognerebbe chiederlo agli altri. Scherzi a parte. So che vengo considerato un gentleman, quindi elegante (almeno nei modi). Mi definiscono anche buono. E poi, per non usare solo aggettivi edificanti, qualcuno mi definisce presuntuoso. Mentre altri mi definiscono modesto. Scegliete».

 11.   Tre aggettivi con cui lei si autodefinisce? Perché?

«Sono malinconico, da sempre. Per questo spesso faccio lo spiritoso, invento battute per colleghi e amici, secondo la ben nota legge del clown (triste nella vita). Sono leale, com’è anche nelle caratteristiche del mio segno zodiacale l’Ariete. Infine sono ansioso, il perché non lo so, ma so che è così (anche se, giunto a questa età sto migliorando)».

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